domenica, 22 Dicembre 2024
Archeologia&Dintorni

RESILIENZA E NON COLLASSO: NUOVI STUDI SULL’ISOLA DI PASQUA

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Una nuova ricerca della Binghamton University, l’università dello Stato di New York, conferma che il crollo demografico al centro del mito dell’Isola di Pasqua non sia realmente avvenuto grazie a una capacità innata nell’uomo, la resilienza.

Le vicende sulla “fine” dell’Isola di Pasqua sono molto studiate e anche recentemente un nuovo studio ha svelato come la popolazione dell’isola non si è decimata a causa dell’arrivo degli Europei ma non ha sempre vissuto in equilibrio con la natura che li circondava.

Secondo la poco brillante teoria esposta nel noto film “Rapa Nui” la popolazione dell’isola avrebbe abbattuto ogni albero, forse per fare campi per l’agricoltura o per erigere statue giganti per onorare i loro clan. Questa decisione avrebbe portato a un crollo catastrofico, con solo poche migliaia di persone rimaste a testimoniare lo sbarco delle prime barche europee sulle loro coste remote nel 1722.

Secondo una nuova ricerca degli antropologi della Binghamton University, Robert DiNapoli e Carl Lipo, il crollo demografico al centro del mito dell’Isola di Pasqua non è, dunque, realmente avvenuto.

Nella loro ricerca, recentemente pubblicata sulla rivista Nature Communications, il calcolo bayesiano approssimativo del radiocarbonio e i dati paleoambientali mostrano una forte resilienza della popolazione di Rapa Nui.

L’isola di Pasqua è stata a lungo al centro di studi su questioni relative al collasso ambientale ma per i ricercatori è importante ricostruire i livelli di popolazione dell’isola per accertare se si è verificato un tale crollo e, in caso affermativo, svilupparne una scala.

DiNapoli, ricercatore associato post-dottorato in studi ambientali e antropologia, conferma che per Rapa Nui gran parte della discussione accademica e popolare sull’isola sia incentrata sull’idea che ci fosse stato un crollo demografico correlato nel tempo con i cambiamenti climatici e i cambiamenti ambientali .

Dopo la colonizzazione tra il XII e il XIII secolo d.C., l’isola, un tempo boscosa, fu completamente spogliata e diversi studiosi indicano il disboscamento per l’agricoltura richiesto dall’uomo e l’introduzione di specie invasive come i ratti quali cause trainanti che avrebbero ridotto la capacità naturale dell’isola e avrebbero portato a un declino demografico.

Inoltre, intorno all’anno 1500, un cambiamento climatico nell’indice dell’oscillazione dell’emisfero meridionale, avrebbe indotto un clima più secco su Rapa Nui.

Nuovi studi consentono agli archeologi di ricostruire le dimensioni della popolazione utilizzando misururazioni di base, come osservare le diverse età degli individui nei siti di sepoltura o contare i siti delle antiche abitazioni. Quest’ultima misura può essere problematica perché fa ipotesi sul numero di persone che vivono in ogni casa e se le case siano state occupate contemporaneamente.

La tecnica più comune, tuttavia, utilizza la datazione al radiocarbonio per tracciare l’estensione dell’attività umana in un momento preciso estrapolando i cambiamenti della popolazione da quei dati. Per la prima volta, DiNapoli e Lipo hanno presentato un metodo in grado sia di risolvere l’incertezze prodotta dai risultati al radiocarbonio, sia di mostrare come i cambiamenti nelle dimensioni della popolazione siano legati alle variabili ambientali nel corso del tempo.

I metodi statistici standard non funzionano quando si tratta di collegare i dati del radiocarbonio ai cambiamenti ambientali e climatici e ai cambiamenti di popolazione ad essi collegati. Fare ciò implicherebbe la stima di una “funzione di verosimiglianza”, che è attualmente difficile da calcolare. Secondo i ricercatori, il calcolo bayesiano approssimativo, tuttavia, è una forma di modellazione statistica che non richiede una funzione di verosimiglianza e quindi offre ai ricercatori una soluzione alternativa.

Utilizzando questa tecnica, i ricercatori hanno determinato che l’isola abbia registrato una crescita della popolazione costante dal suo insediamento iniziale fino al contatto europeo nel 1722. Dopo tale data, due modelli mostrano un possibile stabilizzarsi della popolazione, mentre altri due modelli mostrano un possibile declino.

In breve, non ci sono prove che gli isolani usassero le palme ormai scomparse per il cibo, un punto chiave di molti miti del crollo. La ricerca attuale mostra che la deforestazione sia stata prolungata e non ha provocato un’erosione catastrofica; i boschi furono sostituiti da giardini pacciamati con pietra che ne avrebbero aumentatoo la produttività agricola. Durante i periodi di siccità, le persone potrebbero aver fatto affidamento sulle infiltrazioni costiere d’acqua dolce.

La costruzione delle statue moai, considerate da alcuni un contribuente al collasso, continuò in realtà anche dopo l’arrivo degli europei. L’isola, dunque, non aveva mai avuto più di qualche migliaio di abitanti prima del contatto con gli esploratori del Vecchio Mondo e il loro numero stava aumentando invece di diminuire, come mostra la ricerca.

Quelle strategie di resilienza hanno avuto molto successo, nonostante il clima sia diventato più secco anche se il concetto che i cambiamenti nell’ambiente influenzino le popolazioni umane, stentano a declinare, influenzate dalle preoccupazioni moderne sul’inquinamento guidato dall’industrializzazione e dai cambiamenti climatici. Nel corso del tempo, però, l’attenzione dei ricercatori in generale ha iniziato a considerare i cambiamenti nell’ambiente come un motore primario positivo di cambiamenti e trasformazioni culturali.

Su un’isola isolata, tuttavia, la resilienza e la sostenibilità sono una questione di sopravvivenza della comunità stessa e le risorse dovrebbero tendere a essere gestite in modo conservativo. Un passo falso nella gestione delle risorse potrebbe portare a conseguenze tangibili e catastrofiche, come la fame.

Secondo Lipo, i modi in cui i popoli antichi affrontavano i cambiamenti climatici e ambientali non riflettono necessariamente le attuali crisi globali e il loro impatto nel mondo moderno. In effetti, potrebbero avere molto da insegnarci sulla resilienza e sulla sostenibilità… Anche se le loro tecnologie potrebbero essere più semplici delle nostre, molto ancora c’è da imparare sul contesto in cui sono stati in grado di sopravvivere le popolazioni del passato!

 

Tradotto e rielaborato da Daniele Mancini

Per ulteriori info: Binghamton University 

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