giovedì, 26 Dicembre 2024
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POMPEI, LE ULTIME 72 ORE… – ultima parte

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Cosa è accaduto durante i due giorni prima della tremenda eruzione del vulcano? In questo articolo, suddiviso in due parti, ripercorrerò le vicende di Pompei nelle sue ultime 72 ore di vita, con alcuni approfondimenti su alcune scoperte. Buona lettura.

Siamo arrivati al mattino del giorno prima dell’eruzione, il 23 ottobre del 79 d.C.: il foro della città era in fermento a causa di una delle tante assemblee di cittadini preoccupati per i continui terremoti e le credenze popolari rinvigorivano i nefasti pensieri sui timori dell’ira degli.

effetto vulcano
Foto di Daniele Mancini

La vita delle terme iniziava come tutti i giorni: erano un importante luogo di incontro per discutere e fare affari, molto frequentato da tutte le classi sociali, assumevano un ruolo centrale in ogni città romana. I bagni termali erano un segno di raffinatezza e di civiltà che distingueva i romani dai barbari dei confini. Pompei vantava  ben cinque grandi Terme, oggi tutte ottimamente conservate. Quelle accanto al foro, le Terme del Foro, chiamate anche Terme della Fortuna, sono le più spettacolari:  erano dei veri e propri palazzi del piacere e, anche la mattina del giorno prima dell’eruzione, dovevano essere in piena attività, un’abitudine di tutti i cittadini, ricchi o poveri che fossero.

A causa dei frequenti terremoti, il moderno sistema idrico di Pompei, composto da chilometri di  funzionali tubature in piombo, alla vigilia dell’eruzione del vulcano presentava ben 22 interruzioni sparse nella città e la fornitura idrica era interrotta in alcuni quartieri. Proprio tale disagio aveva spinto numerosi abitanti della città a lasciare Pompei.

Nel pomeriggio del giorno di vigilia dell’eruzione, gli abitanti erano ancora ignari del destino che li attendeva: non pensavano minimamente che il monte Vesuvio fosse un vulcano!

Oggi, l’immenso cratere del vulcano Vesuvio presenta le caratteristiche fumarole,  quelle emissioni di vapore create dalla roccia fusa nel sottosuolo che surriscalda l’acqua e permettono la fuoriuscita di una miscela di gas e vapore acqueo, a volte anche con diversa composizione chimica.

Alla vigilia dell’eruzione, dunque, è probabile che le emissioni delle fumarole  siano aumentate, come la frequenza dei terremoti.

La visione delle piccole colonne di fumo e l’intensificarsi delle scosse devono aver allarmato i superstiziosi abitanti di Pompei, oltre ad aver provocato le ulteriori interruzioni nella rete idrica che alimentava laghetti e cascate delle numerose domus patrizie ma anche le numerose fontane pubbliche di acqua potabile destinate alla popolazione meno abbiente.

Il sistema idrico pompeiano era alimentato dalla madre di tutte le cisterne, il Castellum Acquae, il serbatoio/acquedotto che riforniva l’intera rete. Il Castellum Acquae, rifornito dalle sorgenti poste a circa 40 km dalla città, è stato gravemente danneggiato dalle scosse telluriche antecedenti l’eruzione,  lasciando nel panico gli abitanti di Pompei per i quali l’acqua era una caratteristica fondamentale della loro vita giornaliera.

L’acqua di Pompei proveniva dell’Aqua Augusta, l’Acquedotto romano del Serino, un’opera straordinaria lunga ben 130 km che riforniva 9 città nel Golfo di Napol: Nola, Pompei, Acerrae, AtellaeCumae, Baiae, Misenum, Puteoli, Neapolis.

Proprio nel sottosuolo del Quartiere Sanità, a Napoli, è stata effettuata, recentemente, una eccezionale scoperta:  i resti per possente Acquedotto Augusteo, una delle più grandi opere ingegneristiche realizzate dai Romani. In alcuni tratti sono visibili ancora i segni dei danni provocati dalle numerose scosse sismiche prima dell’eruzione e la costruzione di nuove strutture a sostegno del primo acquedotto danneggiato. Nella stessa zona sono presenti numerose tombe nel periodo greco di Neapolis e, la sezione dell’acquedotto che conduceva a Pompei, è stata costruita proprio su alcune camere sepolcrali ellenistiche per evitare di perdere la proverbiale precisione nella pendenza della struttura, in modo che l’acqua potesse scorrere senza tracimare. Le scosse telluriche devono essere state talmente forti da aver prodotto un’interruzione nella condotta idrica verso Pompei, proprio quella sulla necropoli greca,  bloccando il flusso dell’acqua.

Quella che in origine era stata una grande domus, nei pressi della Casa di Venere, al tempo dell’eruzione ospitava delle attività commerciali identificabili dai numerosi graffiti sulle pareti:

Nella proprietà di Iulia Felix, figlia di Spurio, si affittano un bagno degno di Venere e dei cavalieri giudici (di Pompei), botteghe, balconi e soffitte dalle prime Idi di Agosto fino alle seste Idi di Agosto, per cinque anni di seguito. Trascorsi cinque anni il contratto si rinnova consensualmente”, identificando in una donna, non una ex prostituta in pensione come creduto in passato, la proprietaria dell’intero complesso di attività ricreative dotato di terme, piscine, sale da pranzo, un complesso sistema di fontane e un enorme giardino. Purtroppo, uno dei migliori esempi di imprenditorialità femminile del mondo antico è stato inesorabilmente sepolto dall’eruzione del vulcano!

Il cedimento dell’acquedotto di Pompei, unito alle sempre più minacciose attività vulcaniche, scateno l’esodo dalla città che, però, ha continuato a ospitare il 20% della popolazione originale residente.

Al tramonto della giornata di vigilia dell’eruzione le strade erano letteralmente intasate per il caos provocato dalle scosse e dalle fumarole visibili sul Vesuvio: gli sfollati cercavano di salvare se stessi e i propri averi nel modo più veloce possibile.

Foto di Daniele Mancini

Molti cittadini, invece, sono rimasti volontariamente bloccati in una delle moderne attrazioni turistiche più importanti di Pompei: il lupanare.

E’ noto che se nelle taverne le locandiere offrivano servizi extra e che ogni padrone potesse fare sesso a piacimento con i propri schiavi, maschi o femmine che fossero, nel lupanare, la clientela era per lo più passaggio e a Pompei, una città portuale e di commerci, era abbondante…

Le prostitute erano schiave, costrette a lavorare in strette stanze dove un letto in pietra, coperto da un semplice materasso o da un pagliericcio, accoglieva i clienti; sopra le porte, gli affreschi erotici elencavano i servizi offerti. Il lupanare, con le schiave e gli schiavi costretti a prostituirsi, rappresentano il volto peggiore della grande potenza dell’impero romano.

Anche le locande di Pompei, aperte la sera prima dell’eruzione, riportano i segni del disastro: anfore con resti di cibo nei banconi piastrellati, tesoretti di monete depositati o abbandonati all’ultimo secondo per darsi alla fuga.

24 ottobre del 79 d.C. In mattinata la pressione del Vesuvio ha raggiunto livelli critici e alle 9 la terribile eruzione ha inizio: un’enorme colonna di vapore e fumo viene espulsa dal vulcano, ma è solo un’anteprima dell’eruzione che in 48 ore cancellerà la città di Pompei.

Gli abitanti rimasti in città iniziavano a comprendere di essere in grave pericolo: Il Vesuvio, dunque, non era un vulcano dormiente. La prima eruzione genera panico e confusione, ma non è ancora pericolosa. 

Cassio Dione, uno storico romano vissuto tra il II e il III secolo d.C., riferisce un particolare molto interessante: molti abitanti di Pompei erano seduti nella cavea del teatro, non per uno spettacolo, ma per discutere dei fenomeni che stavano accadendo quella mattina, una sorta di riunione di emergenza del consiglio cittadino.

In quell’epoca, Il Vesuvio era più alto di circa 200 metri ed era completamente ricoperto di alberi e vegetazione, non offrendo alcuna impressione di voler causare un’immensa catastrofe. Intorno a 12, però, la grande eruzione ha inizio: la montagna esplode liberando molta più energia di una bomba nucleare, sollevando una grande colonna di detriti vulcanici verso il cielo che ha raggiunto un’altezza compresa tra i 33 e i 34 km, con circa centomila tonnellate di magma fuoriuscite al secondo; l’onda d’urto fa saltare le tegole delle case e persino alcuni tetti degli edifici. I detriti, ricadendo sulla superficie raffreddati, si solidificano e diventano blocchi di pietra pomice e cenere.

Alla fuoriuscita del magma si è aggiunto un enorme temporale, come se gli dèi si stessero scatenando in una battaglia senza tregua nel cielo: questo sarà sicuramente stato un pensiero ricorrente degli sfortunati abitanti spettatori dell’eruzione…

effetto vulcano

Una delle insulae al centro di Pompei era occupata quasi completamente dalla celebre Casa di Menandro, la Villa di Quinto Poppeo, un influente politico, il cui sigillo di famiglia è stato ritrovato in una delle stanze, parente dell’ imperatrice Poppea, la seconda moglie dell’imperatore Nerone.

Poppea era originaria di Pompei e questa era la casa della sua famiglia. Gli archeologi hanno scoperto che la domus era in ristrutturazione a causa dei danni subiti dai terremoti degli anni precedenti: se i proprietari, si presume, potessero essere assenti, gli operai erano al lavoro già dalle prime ore del mattino, poco prima dell’eruzione. Dieci corpi sono stati ritrovati proprio sopra uno strato di macerie alto oltre 2 metri: si pensa che siano rimasti intrappolati in una stanza del piano superiore il cui soffitto è a sua volta crollato.

In un  ambiente adiacente sono stati ritrovati altri tre scheletri, di un uomo, di una donna e di un bambino con degli attrezzi in mano e sembra che stessero cercando di praticare un foro nella parete, tutt’ora visibile, in un ultimo tentativo disperato di fuga.

Alle 13 circa, ormai,  pietra pomice e cenere si accumulano come neve nelle strade e nei giardini di Pompei, raggiungendo un’altezza di 15 cm.

Oggi è possibile stabilire l’ora esatta dell’eruzione grazie ad un testimone oculare il cui resoconto dei tragici eventi è giunto fino a noi: viveva a circa 32 km da Pompei, sull’altro lato del Golfo di Napoli, a Miseno,  un’importante base della Marina romana ed era il comandante della flotta di stanza in quel porto: era il celebre erudito e naturalista romano, Plinio il Vecchio.

Suo nipote, Plinio il Giovane, viveva con lui e ci sono pervenute due interessanti lettere, inviate allo storico Tacito,  in cui descrive con precisione i dettagli di ciò che è avvenuto quei giorni.

Era a Miseno [Plinio il Vecchio] e, presente, governava la flotta. Il 24 agosto era trascorsa appena un’ora dopo mezzogiorno e mia madre gli mostra una nuvola che allora appariva, mai vista prima per grandezza e figura. […] La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte, poiché guardavamo da lontano; solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio. La sua forma era simile ad un pino più che a qualsiasi altro albero.
Come da un tronco enorme la nube svettò nel cielo alto e si dilatava e quasi metteva rami. Credo, perché prima un vigoroso soffio d’aria, intatto, la spinse in su, poi, sminuito, l’abbandonò a se stessa o, anche perché il suo peso la vinse, la nube si estenuava in un ampio ombrello: a tratti riluceva d’immacolato biancore, a tratti appariva sporca, screziata di macchie secondo il prevalere della cenere o della terra che aveva sollevato con sé.
[…]”

Di fronte a un evento così inusuale, Plinio il Vecchio segue l’istinto da studioso e decide di attraversare il golfo per indagare, non immaginando che la nuvole di cenere fosse causata dal vulcano Vesuvio. Inoltre, si rende conto che molta gente è in pericolo e ordina ad alcune galee della flotta romana di raggiungerlo.

Nel frattempo, la popolazione residua di Pompei è riversa per le strade buie oramai invase dalla cenere: ma c’è ancora qualcuno che non tenta di scappare. Accanto alla domus di Quinto Poppeo, in un’altra abitazione, sono state trovate delle enormi anfore vinarie che riportano il nome di Lusius Faustus; nell’atrio della casa, inoltre, sono stati rinvenuti attrezzi da falegname o mobiliere, lasciando supporre il mestiere del proprietario della casa.

La domus è stata trovata con la porta d’ingresso chiusa dall’interno, lasciando supporre che qualcuno era in casa al momento dell’eruzione; in cucina, inoltre, erano presenti i resti di un pasto appena preparato e in un ambiente sul retro ci sono le prove inconfutabili che qualcuno aveva deciso di rimanere: in un angolo sono stati ritrovati due scheletri sui resti di un lettino di legno dipinto di rosso. Stringevano uno scrigno ricolmo di monete.

Gli scheletri delle vittime della Casa del falegname sono stati analizzati con metodi scientifici moderni per cercare nuovi indizi che possano aiutare a ricostruire la storia delle vittime e il loro possibile legame.

Le analisi antropologiche confermano che gli scheletri appartengono a un uomo, di circa 37 anni, e a una donna,  di oltre 50 anni, confutando che si trattasse di una coppia. La spina dorsale dell’uomo riporta  un’anomalia: la quarta vertebra lombare mostra i segni di una grave degenerazione, la tubercolosi, una patologia endemica a Pompei in quel periodo;  anche gli arti inferiori presentavano un serio problema, le gambe arcuate, che ne limitavano la mobilità.

E’ plausibile, dunque, che si trattasse di una madre rimasta con il figlio malato ed è quasi certo che i due individui siano sicuramente morti contemporaneamente, come la maggior parte di coloro rimasti a Pompei

Alle 17, la situazione era ormai disperata per chi aveva deciso di rimanere: i detriti, né incandescenti né tossici, hanno superato il metro di altezza.

Alla fase di caduta di cenere e pomice bianca più leggera, è seguita quella di pietre di pomice grigia e molto più compatta e pesante, contribuendo a far crollare la maggior parte dei tetti di Pompei, non lasciando via di scampo, se non le finestre dei piani superiori, a coloro che si erano rifugiati nelle case. 394 sono i resti delle persone trovate sotto gli edifici crollati!

Alle 19 del 24 ottobre del 79 d.C., la pomice e la cenere, spinte dal vento, hanno ricoperto il suolo in un raggio di circa 15 km dal vulcano, persino al largo del Golfo di Napoli, dove Plinio il Vecchio osservava il disastro in corso dalla sua barca.

Lo scienziato, impossibilitato a sbarcare per soccorrere gli abitanti di Pompei, si dirigeva al porto di Stabiae, 5 km più a sud, dove un suo amico possedeva una villa:  nonostante lo sconforto del suo amico, ha deciso di concedersi un bagno alle terme locali e pernottare…

A Pompei, pomice e cenere continuavano a cadere per le strade e gli abitanti continuavano a rimanere nelle case, dove nessuno era più al sicuro e la Casa del Marinaio,  oggi in restauro, mostra tutti gli effetti  della catastrofe: gran parte dei mosaici sono stati danneggiati dai crolli durante l’eruzione.

A mezzanotte lo strato di detriti ha raggiunto i 2 metri e mezzo e la pioggia inizia a rallentare: dei 3000 abitanti rimasti a Pompei quasi due terzi è sopravvissuta. Ma non è ancora finita, è solo l’inizio di una nuova fase dell’eruzione.

effetto vulcano

La seconda fase dell’eruzione inizia quando l’enorme colonna di detriti che fuoriusciva in continuazione dal vulcano non riesce più a sostenere il proprio peso e collassa su se stessa, generando un’enorme nuvola di cenere e gas ad altissima temperatura (colata piroclastica) che scende dai fianchi del vulcano come una valanga: ogni nuvola, spessa centinaia di metri, hanno temperature, al loro interno, tra circa 500 e 1000 gradi centigradi, si muoveva alla velocità di circa 100 km orari, spazzando via tutto ciò che si trovava sul proprio cammino, tra cui il piccolo centro di Ercolano.

Nelle prime ore del mattino, altre due valanghe piroclastiche invadono il territorio, precipitandosi in direzione di Pompei ma fermandosi alle sue porte, infrangendosi contro le sue mura della città.

Alle 7 del mattino del 25 ottobre, l’effetto delle nuvole piroclastiche si è fatto sentire lungo tutto il golfo di Napoli: i venti diffondono cenere e gas sulfurei per chilometri e Plinio il Vecchio ne sconterà, a proprie spese, l’effetto mortale e devastante del vulcano.

La quarta nube piroclastica è stata fatale per la sorte di tutti i sopravvissuti: fermata solo parzialmente dalla cinta muraria,  la massa gassosa è tragicamente entrata in città invadendo tutte le case e gli edifici, uccidendo all’istante la maggior parte dei sopravvissuti.

 Le indagini degli studiosi confermano che i sopravvissuti non siano morti soffocati ma uccisi, forse anche nel sonno, in una frazione di secondo, dall’immenso calore della nuvola piroclastica generata dal vulcano.

Gli ultimi a morire, noti come i “fuggiaschi“, avevano cercato rifugio al fianco di un muro nei pressi di un  vigneto, al limite estremo della città, rassicurati dall’attenuarsi della pioggia di pomice, ma la quarte nube non ha lasciato loro scampo.

Altre nubi piroclastiche sommergono la città sotto altri 2 metri di cenere: solo intorno a mezzogiorno del 26 ottobre, quando la vetta del Vesuvio è collassata, l’eruzione del vulcano si è iniziata a placare.

Pompei  era ormai sommersa da 5 metri di detriti e solo le mura più alte facevano Capolino in un enorme distesa grigiastra e desertica.

Con il tempo, la città è dimenticata dalla storia: solo per i saccheggiatori in cerca di tesori è divenuta la meta preferita e nel 1748, mentre degli operai posavano delle tubature di irrigazione, Pompei è riscoperta sotto quei campi di grano in terreni resi ricchi e fertili dalla cenere vulcanica.

Daniele Mancini

Parco Archeologico di Pompei

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