ALLA SCOPERTA DI TEBE: LUQSOR
Tebe Est non è solo Karnak. Oggi leggerete di Luqsor.
Con il recinto di Mut sono connessi alcuni tratti del sistema stradale che collegano fra loro i complessi templari tebani. Karnak resta il punto di partenza, da cui conosciamo una via che dal tempio portava all’imbarcadero e che permetteva i trasporti fluviali dell’immagine di Ammon. Ma la più importante fra queste vie è quella che unisce Karnak con Luqsor per circa tre chilometri, fiancheggiata da sfingi della XXX dinastia su basi certamente più antiche[1]. Questa strada collega due centri che sembrano connessi più cultualmente che topograficamente; ancora in età romana Diospolis Magna-Karnak è diversa da Ophieum-Luqsor. Essa infatti serviva tipicamente alla celebrazione della “festa di Opet“: una festa annuale, che si celebrava nel secondo mese dell’inondazione e dell’importanza tale che l’evento ne conferisce il nome ed è conservato tuttora dal calendario copto. Le più antiche rappresentazioni e descrizioni sono visibili nella Cappella Rossa di Hatshepsut[2].
L’importanza di questa via processionale già al tempo di Hatshepsut, come testimoniato dai rilievi della Cappella Rossa, fa legittimamente pensare che a Luqsor esistesse allora già un santuario di notevole significato. In realtà, per l’età più antica, conosciamo solo due architravi, trovati all’ingresso della salaipostila del tempio attuale, con impresso il nome di Sebek-hotep II della XIII dinastia che non è detto siano in situ. Altri faraoni hanno lasciato pietre o statue con impresso il loro nome.
Il tempio di Luqsor, quale ci si presenta oggi, è un’opera assai organica di fatto opera di Amenhotep III e poi di Ramses II, che ben pochi mutamenti ha sofferto in confronto a quel che è accaduto a Karnak. Questo monumento è un’opera del tutto nuova, ispirata a quel gusto del grandioso e del colossale che si riscontra nelle architetture di Amenhotep III a Karnak e nel suo tempio funerario (quello di cui restano come soli testimoni i Colossi di Memnone). Il tempio di Luqsor è, infatti, un “tempio di milioni di anni“, come un’espressione usata in genere per i templi funerari di cui si è constatato che servano a indicare un tempio che comporta non solo il culto del re ma anche di una divinità[3].
La struttura del complesso, attuata da Amenhotep III, è assai singolare: il santuario propriamente detto è formato da due unità strutturali che si susseguono, appena connesse fra loro da un passaggio secondario. Una di queste è in funzione della barca della divinità, l’altra del sacrario vero e proprio, con funzioni rituali diverse. Il sacrario consta di tre cappelle, forse Ammon, Mut e Amaunet. Vi si accede da una sala ipostila a dodici colonne, orientata est-ovest, che doveva essere percorsa per la presentazione delle offerte, rappresentate sulle pareti dai raffinati rilievi, ancora riconoscibili. A fianco si ha la rappresentazione delle barche nelle quali il Sole attraversa il cielo nei suoi quotidiani viaggi; questo carattere “solare”, accentuato nei templi tebani del Nuovo Regno, è connesso al carattere regale, sottolineato proprio sulla parete del sacrario principale dalla rappresentazione di Ammon che incorona il sovrano[4].
Oltre a queste camere “significanti” si hanno piccoli vani laterali, depositi o sacrestie, il tutto apparentemente concluso in un insieme ben identificato e diviso dal resto del complesso architettonico. La parte più cospicua del quale si articola, allude alla lontana Karnak con la quale è ritualmente, ma anche concettualmente e urbanisticamente, collegata[5].
Sala Il tempio di Amenhotep III appare diviso in tre grandi elementi, verosimilmente costruiti in tre diversi momenti: uno splendido colonnato di ingresso con colonne papiriformi, preludio a una progressiva sequenza di vani ipostili.; una cameretta laterale che ha funzione di anticamera a quello che, in certo senso, è il vero fulcro di tutto il complesso, cioè la camera sulle pareti della quale è rappresentata la nascita divina del re, la ierogamia che unisce Ammon e la regina e concede all’Egitto quella guida celeste che è il faraone; questo insieme si completa con un grande cortile, all’incirca quadrato, di quarantotto metri sul lato nord-sud e cinquantadue su quello est-ovest, corredato da un portico a due file di colonne. Questo cortile è più largo di quanto non sia il tempio cui si appoggia, e moltiplica così l’effetto suggestivo dei colonnati che lo racchiudono[6].
Il tempio di Amenhotep III ha avuto pochi mutamenti nei secoli. Il più importante è stato quello che Alessandro Magno compì nel sacrario della barca dove fu installato un naos e dove fu aperto un passaggio per connetterlo con il sacrario della statua. In confronto con queste modeste modifiche e poco altro dovuto a esigenze di restauri, ben altro peso ha l’intervento di Ramses II che ha assunto il compito di rinnovare e reinterpretare il monumento di Amenhotep III: un nuovo cortile appoggiato a un nuovo e colossale pilone di sessantacinque metri di larghezza sulla cui facciata sono scolpiti i rilievi che ricordano i casi della battaglia di Qadesh; il tutto è preceduto da sei statue colossali del sovrano e due obelischi che, un po’ più avanti, marcavano l’entrata (furono donati alla Francia nel 1831 ma solo uno ne partì per Parigi e oggi è in bella mostra in Place da la Concorde), assumendo così il significato di un manifesto di quel che sarà il cosiddetto barocco ramesside[7].
Dopo il grandioso complemento immaginato da Ramses II il tempio ha subito pochi, ma essenziali, ritocchi. Tra i più importanti, alla fine dell’età dinastica, Nectanebo ha sistemato l’ultima parte del viale di raccordo con Karnak e lo ha fiancheggiato di sfingi leonine, mentre dalla parte verso Karnak sono arieti. Allo stesso sovrano si attribuisce anche un muro di cinta che chiude una larga piazza davanti al tempio: ma tale datazione è stata messa in dubbio ed è stata abbassata fino all’età romana e, da altri studiosi, rialzata fino all’età ramesside. Comunque, poco resta oltre le fondazioni. In età greca abbiamo visto come sia stato riorganizzato il settore del sacrario e questo dimostra l’importanza che ancora si riconosce al tempio, sulle cui pareti più accessibili ai fedeli si affollano proskynemata, graffiti in greco[8].
Con l’età romana Luqsor diviene un centro militare e il primo monumento che ne ricorda tale carattere è proprio un piccolo santuario nel piazzale davanti al pilone, scoperto nel 1950 e abbastanza ben conservato. E’ un edificio su un plinto, di dodici metri per otto, che consta di una cella circondata da colonne, di pianta classicheggiante, anche se di particolari decorativi egittizzanti. L’iscrizione su una statua di una Iside vestita alla greca, definisce l’edificio come Serapeo ed è uno splendido esempio di come, nel suo stesso paese di origine, l’antica religione egiziana potesse presentarsi nelle vesti di quella religione isiaca internazionale che aveva conquistato tutto il mondo romano. Il carattere militare assunto dalla città si manifesta però in modo assai più esplicito nel fatto che, fra il 300 e il 301 d.C., tutto il tempio viene inglobato in un grande campo militare che ne adopera le strutture come elemento assiale. Inoltre gruppi di quattro colonne trionfali, su ognuna delle quali era l’immagine di uno degli imperatori, gli Augusti e i Cesari della tetrarchia dioclezianea e le rispetive iscrizioni, hanno fissato con esattezza la cronologia dell’insieme[9].
Con la fine imminente del paganesimo il tempio tuttavia non doveva concludere la sua funzione. Divenuto sede di castra, ne ha mantenuto ancora il nome el-Uqsor (e, cioè, Luqsor, gli “accampamenti”, appunto). Nel frattempo si è popolato di chiese, archeologicamente datate al VI-VII secolo. La più singolare resta quella costruita nel cortile ramesside e acquattata oggi sotto la piccola Moschea di Abu el-Haggag in una suggestiva ed eloquente stratigrafia non soltanto di fasi archeologiche ed architettoniche, ma una sorta di palinsesto di fedi e di civiltà che si sono sovrapposte l’una sull’altra[10].
Daniele Mancini
Note e per un approfondimento bibliografico:
[1] KEMP, B. J., Ancient Egypt. Anatomy of a Civilization, NEW YORK, 1991, p. 205
[2] BONGIOANNI, A., Luxor e la Valle dei Re, VERCELLI, 2005, pp. 76-77
[3] BONGIOANNI, 2005, p. 78
[4] DONADONI, S., Tebe, MILANO, 1999, pp. 100-102
[5] KEMP, 1991, p. 206
[6] DONADONI, 1999, pp. 103-104
[7] DONADONI, 1999, pp. 106-108
[8] BONGIOANNI, 2005, pp. 80-81
[9] BONGIOANNI, 2005, pp. 82-93
[10] DONADONI, 1999, pp. 109-112