APPROFONDIMENTI MECCANICISTICI SULLA DURABILITA’ DEL CALCESTRUZZO ROMANO
Un recente studio ha approfondito i meccanicismi sulla durabilità del calcestruzzo romano, quello che Vitruvio (De arch., II, 4,1) cita col nome di structura caementicia e i ricercatori moderni spiegano perché i costruttori romani abbiano utilizzato una miscela di materiali capace di “guarire se stessa”.
La nuova visione della resilienza del calcestruzzo romano non solo spiega come le strutture che vanno dal Pantheon a Roma al Porto marittimo di Cesarea in Israele siano ancora in piedi circa 2000 anni dopo la costruzione. Secondo Linda Seymour del MIT di Boston e colleghi, nello studio pubblicato su Science Advances, è offerta anche una possibile soluzione per ridurre l’utilizzo di carbonio dalla moderna produzione di cemento, che rappresenta fino all’8% delle emissioni globali di gas serra.
Lo studio si basa su ricerche precedenti che hanno esaminato antichi moli e frangiflutti per dimostrare che i romani aggiungevano cenere vulcanica alla loro malta per rendere il calcestruzzo altamente resiliente, in particolare quando veniva a contatto con l’acqua di mare. Come e perché ciò sia accaduto non era del tutto chiaro fino ad ora, afferma Admir Masic, un ricercatore del MIT, capo del team che studia il cemento dell’antica Roma.
Il cemento moderno è una miscela di sabbia, ghiaia, acqua, il cosiddetto cemento Portland, che a sua volta viene prodotto bruciando calcare, argilla e altri materiali in forni che raggiungono temperature superiori ai 1.400 gradi centigradi. Questo processo rilascia quasi una tonnellata di anidride carbonica che provoca effetti devastanti sul clima ogni tonnellata di cemento prodotta. Inoltre, come possiamo constatare direttamente, crea anche una miscela molto omogenea che, però, non sopporta bene le crepe e può sgretolarsi dopo pochi decenni.
Il cementizio romano è meno uniforme della sua controparte moderna e contiene minuscoli granuli di calce bianca, chiamati clasti di calce, simile alla roccia, che inizialmente non si dissolvono ma rimangono intrappolati nel materiale composto. I ricercatori hanno scoperto che, sebbene una volta fossero ritenuti un’imperfezione, i clasti di calce sono in realtà la chiave per sbloccare le proprietà autorigeneranti del calcestruzzo romano.
Secondo Matic, l’idea che la presenza di questi clasti calcarei fosse semplicemente attribuita a uno scarso controllo di qualità, ha fatto ricredere i ricercatori che confermano la genialità dei costruttori romani: seguendo tutte le ricette dettagliate ottimizzate nel corso di molti secoli, non certamente si sono impegnati così poco per garantire la produzione di un prodotto finale ben miscelato.
Masic e il suo team hanno raccolto campioni di calcestruzzo da Privernum, un antico insediamento a 100 chilometri a sud di Roma, e hanno studiato la composizione della malta mediante microscopia elettronica e spettroscopia a raggi X. Le crepe nel cemento erano state riempite con carbonato di calcio, la stessa sostanza trovata nei clasti. Hanno concluso che i Romani hanno fatto il loro calcestruzzo attraverso un processo chiamato miscelazione a caldo. Questo metodo comporta la miscelazione di sabbia, cenere vulcanica e calce viva (cioè calcare sciolto) e, quindi, l’aggiunta di acqua. L’idratazione provoca una reazione chimica tra la calce e l’acqua che innalza la temperatura della miscela fino a 200 gradi, da qui il termine “caldo”, e provoca anche la formazione di minuscoli pezzi di calce residua.
Se il calcestruzzo alla fine sviluppa crepe, l’acqua, la pioggia sulla terraferma o l’acqua di mare, scorre attraverso le fessure e dissolve il calcio nei clasti di calce. Il calcio quindi precipita e si ricristallizza lungo le fessure, alla fine sigillandole ancora meglio!
Per confermare la loro teoria, i ricercatori hanno realizzato cilindri di cemento di ispirazione romana prodotti con la tecnica della miscelazione a caldo, che credevano fosse usata nell’antichità. Una volta che il cemento si è solidificato, hanno rotto i cilindri e separato le due metà di una distanza di 0,5 millimetri, lasciandole sotto l’acqua corrente. Dopo un medio periodo compreso tra una e tre settimane, le crepe sono state sanate, mentre i cilindri di controllo realizzati con cemento moderno sono rimasti rotti.
Gli indizi che questa fosse la chiave per la forza del cementizio romano sono presenti nella documentazione storica. Un processo che rilascia “calore latente” nella produzione del calcestruzzo è descritto dal già citato Vitruvio, ma questa è la prima volta che moderni ricercatori abbiano identificato la tecnica utilizzata e riprodurre la notevole resistenza del calcestruzzo romano.
Marie Jackson, geologa e geofisica presso il University of Utah la cui recente ricerca si concentra sul cemento romano antico, ha dimostrato che le antiche strutture in calcestruzzo romane sulla terraferma e in mare, dimostrano che i materiali vulcanici e i clasti di calce nel calcestruzzo reagiscono nel tempo con i fluidi interni. Da questi fluidi precipitano diversi cementi minerali, rinforzando il calcestruzzo per tutta la sua lunga durata, afferma la Jackson, che non ha preso parte all’ultimo studio.
Lo sforzo di Masic e del suo team è, dunque, uno studio molto interessante che si concentra su un sistema chimico e costituisce solo una piccola parte della straordinaria resilienza dei calcestruzzi architettonici dell’antica Roma e delle strutture marittime in cementizio costruite nel Mediterraneo con la calce e la roccia vulcanica. Ovviamente, esistevano altri trucchi ingegneristici e processi di autoriparazione all’opera in tali monumenti, ma l’uso della miscelazione a caldo e la presenza di clasti di calce nel calcestruzzo erano certamente fattori chiave nella durabilità delle strutture romane.
Matic sostiene che sebbene i Romani non comprendevano necessariamente di chimica, alla base della resilienza del loro cemento hanno creato una ricetta dopo secoli di prove ed errori per costruire strutture sempre più robuste, in particolare in mare, e una volta trovato quella che funzionava bene, l’hanno mantenuta!
Ora i moderni produttori di cemento potrebbero adottare queste nuove tecniche di produzione per avere edifici più durevoli e ridurre, soprattutto, l’impronta di carbonio dell’industria del calcestruzzo. La produzione di calce viva da utilizzare nella miscelazione a caldo richiede temperature inferiori rispetto al normale cemento Portland, portando a bruciare meno combustibile nei forni. Se sono raddoppiati o triplicati le durate dei materiali a base di cemento, avremo bisogno di meno materiali per un tempo più lungo e saremo in grado di mitigare in modo significativo le emissioni dalla produzione di calcestruzzo.
I produttori saranno d’accordo? La storia e l’archeologia continuano ad aprire la strada al futuro…
Tradotto e rielaborato da Daniele Mancini