Archeologia, restauri e musei. Gli inizi…
Il concetto di restauro di monumenti e beni archeologici è stato sempre al centro di enormi discussioni e piuttosto opinabili sono stati modi e i metodi utilizzati per la salvaguardia del manufatto. Propongo, qui, una disamina critica di quanto effettuato negli ultimi secoli, soprattutto a Roma. Ma non esaminerò solo la città eterna.
Durante il Medioevo l’Arco di Tito, a Roma, era inglobato nel Palazzo Frangipane: un lungo muro lo univa all’arco che fungeva da cancello di ingresso. Grazie a Sisto IV il muro è stato abbattuto. Nel XIX secolo, invece, Valadier ha provveduto al restauro dell’arco così come è visibile oggi. Prima del restauro era rimasto solo il fornice centrale e Valadier, con i pochi elementi rimasti, l’ha completamente ricostruito. L’arco è in marmo pentelico e Valadier l’ha integrato con il travertino per mostrare i restauri realizzati. Tutti i dettagli, dalla cornice ad ovuli e dentelli, sono stati curati, tranne alcuni dettagli come il fogliame. Vi è stata, quindi, una netta divisione tra l’antico e il restauro moderno. Valadier è stato un grande architetto e restauratore anche se ogni restauratore crede di essere un infallibile: ritengo che con i restauri non bisogna confondere le idee. Evans, ad esempio, ha ricostruito completamente il palazzo di Cnosso di cui, dell’originale, è rimasta solo la pianta. Per il tempio di Zeus a Cirene la ricostruzione è stata indolore perché in seguito alla distruzione per la rivolta ebraica degli inizi del II sec. d.C., le colonne sono cadute in modo tale da compiere un’anastilosi senza problemi di sorta. Nei restauri è importante sapersi fermare in tempo!
Criticabile e discutibile anche il discorso rinvenimento/riutilizzo/conservazione. Negli edifici di Pompei, distrutti da un catastrofe naturale, è fantastico che si riesca a vedere la vita fermatasi in un quell’attimo dell’eruzione del 79 d.C.: ma tutto questo sarebbe da lasciare così come è stato rinvenuto. E’ sintomatico, invece, come dalla Casa dei Vetti abbiano depredato quasi tutti i reperti rinvenuti, prima che fossero finiti nei musei. Tutto questo, purtroppo, a scapito della storia: gli oggetti, purtroppo, perdono il loro senso fuori dai contesti originali. Prima dei musei, le collezioni erano conservate in palazzi antichi senza alcun criterio di esposizione (Palazzo Massimo, Palazzo Mattei, Palazzo Doria Pamphili erano alcuni dei luoghi deputati a conservare i rinvenimenti romani). Addirittura per i balconi di Palazzo Maffei, nella parte anteriore, sono state utilizzate le facciate di alcuni sarcofagi romani. Di diversa concezione fu Villa Albani, sulla Salaria, costruita appositamente con la medesima pianta di una villa romana antica in modo da creare un ambiente adatto per accogliere sculture antiche e ricollocare le opere d’arte in gallerie, saloni ed ambienti specifici (nella biblioteca, ad esempio, vi sono le statue delle muse). Le opere d’arte passano, quindi, da una funzione decorativa subordinata, ad una fondamentale. Si afferma il gusto e la coscienza del valore storico dei monumenti.
Oltre queste collezioni, nel ‘700 nascono a Roma i Musei Capitolini e il Museo Pio Clementino, in cui il criterio di esposizione è ancora farraginoso. Nel Museo Pio Clementino, nella sala rotonda, ad esempio, furono messe insieme solo sculture colossali e senza un filo conduttore. Sempre in questo periodo, gli scultori dell’epoca decisero di restaurare tutte le statue antiche. Emblematico fu il caso dello scultore neoclassico Bertel Tordvalsen, amico di Canova, che restaurò le sculture del tempio arcaico dell’isola di Egina (si veda l’articolo http://www.danielemancini-archeologia.it/il-tempio-greco-e-il-problema-del-frontone/ per ulteriori informazioni). Tordvalsen ha per primo raddrizzato, segandole, tutte le braccia mancanti delle statue frontonali; poi ha inserito gli attributi delle mani a suo modo, travisando tutte le posizioni originali (si veda il Museo di Monaco). In seguito, altri scavi tedeschi ad Egina, hanno rinvenuto le parti originali mancanti di molte delle statue già restaurate dal Tordvalsen ma senza più possibilità di un nuovo inserimento.
Nel 1764, Johann Joachim Winckelmann, scrisse e pubblicò un’opera magna sulla storia dell’arte degli antichi, Storia dell’arte nell’antichità (Geschichte der Kunst des Alterthums). Altri l’hanno preceduto ma senza valutare i precisi contesti storici. E’ un anello che propone un punto fermo sulla storia dell’arte ma, comunque, da prendere con le molle. Winkelmann pose le basi di una nuova ricerca: creare una storia dell’arte che non si avvalesse solo delle fonti letterarie, ma anche interrogando i monumenti.
Nel frattempo l’Impero Ottomano era percorso da un grande declino, mentre la Marina Inglese era in grande auge. Iniziano i viaggi degli aristocratici accompagnati dai maestri di studio: si approfondirono le conoscenze di Turchia e Italia meridionale. I grandi studiosi rinascimentali mai si furono spinti a sud di Roma e Paestum, Baalbek e Palmyra, furono le grandi scoperte di quel periodo d’oro. Si costituì una sorta di “club del dilettante” che si divertiva nei viaggi e nelle scoperte del Gran Tour. Per merito di studiosi e viaggiatori soprattutto tedeschi iniziarono i grandi scavi archeologici che portano ad eccezionali scoperte come Troia con Schliemann e al rinvenimento delle vestigia dei tempi siculi di Selinunte e Segesta o della città di Pompei, per citare alcuni siti, che sono dovute alla lungimirante vena munifica dei Borbone. Di questi scavi è interessante conoscerne i diari e i disegni, precisi e puntuali e grazie a queste attività arrivano in Europa complessi scultorei letteralmente strappati dai relativi templi di appartenenza (Partenone al British Museum, Altare di Pergamo a Berlino). Lo spoglio delle parti scultoree dai loro templi originali, fu un riprovevole atto di violenza. Ma per gettare le basi della storia dell’arte antica, fu fondamentale ed importante per effettuare degli studi precisi e salvaguardare manufatti di inestimabile valore. Oggi lo smog ha contribuito a distruggere i marmi residui del Partenone di Atene, ad esempio.
Winckelmann ha, comunque, effettuato parecchi errori nel suo capolavoro storiografico artistico: non conosceva gli originali greci della statuaria che ha descritto; lui ebbe a disposizione solo le copie romane appartenenti al cardinale Albani, di cui fu anche bibliotecario. Il suo grande merito fu, invece, quello di contribuire a fornire una schedatura delle opere, studiando le fonti letterarie. Purtroppo non si è avveduto che a Roma esistevano, appunto, solo le copie romane degli originali greci e non conosceva, inoltre, l’arte arcaica greca, ancora rinchiusa nella colmata persiana, scoperta solo a metà degli anni trenta dell’Ottocento. Ha classificato le opere seguendo un criterio estetico considerando l’arte romana decadente e l’arte classica greca (anello della catena), sublime, non sapendo che era successore dell’arte arcaica. Ma ogni epoca è valida per se stessa e le opere relative non possono essere giudicate con lo stesso criterio di opere di diversi periodi. In generale, è sempre opportuno ricostruire la strada attraverso cui l’artista ha elaborato una determinata opera, considerandone l’estro, gli elementi che lo circondavano, l’ambiente in cui viveva.Winckelmann rimase, comunque e con grande personalità, non solo un creatore di un linguaggio scientifico.
Dopo Winckelmann, si scatenarono vari studi sull’arte antica. Nell’ 800 non esisteva in Italia una scuola filologica del tipo tedesco che, invece, era in auge per scoprire come Winckelmann avesse dedotto le sue tesi, non considerando gli originali greci. Tra i grandi studiosi della scuola tedesca si misero in luce Overbeck, Friederichs, Brunn (i fondatori) e Furtwaengler. La scuola filologica nacque intorno al 1830 e durò fino a quasi la I Guerra Mondiale. Overbeck fu uno studioso, non archeologo, che raccolse volumi di antiche fonti letterarie, nonché diverso materiale iconografico e mitologico collegato alle fonti. Questo lavoro fu rivisitato dal Friederichs, anche lui non archeologo che studiò, in modo particolare, il Doriforo di Policleto. Brunn scrisse, invece, la storia degli artisti greci costruita su fonti letterarie e diede una nuova “lettura” mediante l’ “analisi della forma”. Questi nuovi metodi di studio ebbero lo scopo di rivolgersi criticamente ai testi antichi. I filologi lavorarono alacremente confrontando tutti i manoscritti esistenti di un testo, mantenendo le parti considerate originali, vagliando quelle diverse, gli errori di copisti o le varie corruzione di testi. Era necessario far combaciare le notizie letterarie e le opere d’arte!
Nessuna opera originale è giunta fino ad oggi per suo conto.
Molte sono state trovate in fondo al mare, come alcuni bronzi, o da scavi, come per i marmi o i bronzi stessi. Ovviamente per la storia dell’arte sarebbe stato meglio rivolgersi agli originali (che non esistono più) o anche alle opere anonime (poco studiate). Spesso, per uno migliore studio di confronto, ci si dovrebbe rivolgere ad altre fasi storiche o altre popolazioni (Etruschi, Minoici, ecc.). Partendo dalle copie conservate e dalle fonti, furono individuati i grandi capolavori dell’antichità: per esempio, l’Apoxyomenos di Lisippo (atleta che si deterge, con stringhe, coltello e olio). Questa statua è descritta in numerose fonti. Plinio è una di queste, XXXIV capitolo della Naturalis Historia: la descrive così bene che quando la copia romana fu rinvenuta, fu immediatamente identificata e oggi è conservata nei Musei Vaticani. Plinio afferma che l’originale era in bronzo e fu portato via da Atene da Agrippa, console.
Con l’acquisizione dell’arte greca, i Romani rividero anche la loro concezione del “bello” e decisero che per i loro monumenti, le loro abitazioni, fossero necessarie le “conquistate” statue greche. Le statue in bronzo erano soventemente copiate in marmo: ma i capelli erano difficili da riprodurre perché col marmo si ottenevano ciocche più morbide e plastiche; la caratteristica fondamentale del bronzo, però, era che la statua si reggeva da sola, mentre per il marmo non era possibilie ottenere questa capacità: un elemento separato, la statua, aveva bisogno di un puntello sotto forma di tronco o colonnina. Naturalmente, solo per le copie dal bronzo… Del Doriforo di Policleto, che ne è un esempio, sono conservate ben 40 copie romane oggi sparse in tutto il mondo ed è un’opera super citata in tutte le fonti letterarie antiche. Questa statua risolveva il problema del passaggio dall’età arcaica all’età classica. E’ una statua virile e ferma ma conferisce ugualmente l’impressione del movimento, non più un kuros arcaico con le braccia lungo il corpo. Nel Doriforo la gamba sinistra è in movimento ed è contrapposta al movimento delle spalle (sistema incrociato ad X): questo particolare fornisce movimento al corpo della statua sulla gamba diritta. come se tutto il corpo si muovesse: il Doriforo è il primo passaggio canonico dall’arte arcaica a quella classica. Policleto scrisse un trattato, oggi perduto, sulle proporzioni dell’anantomia umana, il Canone, proprio per esplicitare questa tecnica. In epoca storica più recente, la statua di Augusto detta di Primaporta è un vero e proprio Dorifero vestito di età romana imperiale! Gli studi del Friederichs presero in considerazione una copia in basalto il cui colore nero ricorderebbe il bronzo. Ma Friederichs credette che fosse una copia lisippea e non comprese che il Doriforo originale presentasse un’arcaicità maggiore.
Tutta la scelta filologica si è occupata di questo genere di riconoscimenti. Nel frattempo era nata la fotografia per cui è stato possibile effettuare identificazioni anche a distanza. Furtwaengler (archeologo e figlio di direttore di orchestra), con la fotografia e specifici metodi di lavoro, mise insieme una statua di Athena dal Museo di Dresda con una testa di Bologna, riconoscendo che appartenevano alla stessa opera. Ancora una volta si è “ricostruita” l’arte grazie a copie romane.
Ma lo studio dell’arte antica venne avulso dalla complessità storico-sociale. Si perse di vista, infatti, la qualità a favore dell’iconografia (equivoco ancora oggi riecheggiante). La stessa cosa accadde per la pittura. Delle tele non restano opere, ma di affreschi sono rimasti numerosi esempi (si vedano quelli di Pompei ed Ercolano realizzati tra il 62 e il 79 d.C.). La scuola filologica riconobbe una serie di pitture inserite come quadretti (megalografie) a riproduzione di pitture originali greche (sempre corrispondenti alle fonti descrittive). Le pitture venivano, infatti, copiate con albi e cartoni e riportate, quale ricordo della pittura più antica, sui muri delle case con molti arrangiamenti dei copisti locali. Infatti si avevano più versioni del Tèseo col Minotauro (si legga il Bianchi Bandinelli) in cui Tèseo è spesso rappresentato con una tipologia di abitante del luogo.
John Boardmann, nel suo celebre e più recente Storia Oxford. L’arte classica, conferma che superficiali studi possono condurre a madornali errori. In quanto ripercorso sopra, invece, sembra che nonostante gli studi siano stati appassionati e molto particolareggiati, spesso dettati da ideali errati e pensieri culturali che oggi definiremmo “antichi”, non sempre il risultato, per noi studiosi moderni, ha condotto a quanto oggi è parte del nostro bagaglio di conoscenze, sviluppatosi anche sui numerosi errori di esimi studiosi.
Daniele Mancini